_________ALASSIO RESURRECTION_________

venerdì 28 ottobre 2011

Concorso "4 Pagine in Vacanza" Premio speciale

RUBA ACQUA

Mi ci vorrà il periodo di una vita per dirti che ti amo.
I grilli parlanti sfrattati dal pendolo si son trasferiti in pancia e si fanno sentire mentre i ragni ingannano il sole tessendo linee sulla meridiana.
Sui fogli a quadri i numeri scappano dalle gabbie e non tornano più, sui fogli a righe le parole che riesco a scriverti sbattono contro il soffitto.
Una sigaretta son sette minuti, il bicchiere è una clessidra e queste righe pause tra i tuoni.
Nel sogno senza stagioni ti raccogli i capelli con le lancette che mi fanno dannare e con le dita mi sfiori la schiena per disegnare lettere che fanno il tuo nome.
Dall'acqua alla terra sorretto da venti e sospiri, dalla mia porta alla tua a vele piegate con il tuo profilo in gola.
Mi sveglio con il buio appeso in fronte e intorno tutto ciò che rimane è luce nelle pieghe del lenzuolo, quel che vorrei creare e non posso.
Ora ti vedo: definitiva, netta, essenziale come le mute nubi e i silenzi tra ebano e avorio.
Sconto gli anni stretto tra un calendario e un frigorifero vuoto mettendo la tua voce sotto la lingua per provare a guarire.
Ti regalo un orologio automatico, una sedia a dondolo e i miei occhi, tutte cose che si muovono solo se ti muovi tu.

Francesco Vasco

Io sottoscritto Vasco Francesco dichiaro che il racconto che ha come titolo “Ruba Acqua” è frutto del mio ingegno.

giovedì 27 ottobre 2011

Concorso "4 Pagine in Vacanza" terzo classificato

IL GUSTO AMARO DEL MATTINO

Il gatto ingellato e incravattato è appena uscito, felpatissimo. Dietro di sé una scia odorosa di bagnolatte sciacquato con la foia della doccia dell’ultimo minuto. Perché, micia lo sa bene, il suo Romeo ha voluto ritardare il più a lungo possibile il momento dell’addio, tanto è stata intensa la loro notte di amanti acciambellati sul suo letto duro di marciapiede.
Appena risuona il silenzio nell’intimità ricomposta della casa, la gattina si alza scattante, eccitatissima all’idea della violazione dei suoi spazi privilegiati. Non ha voluto interferire, lo ha lasciato muoversi liberamente per non spezzare la magia del sentirlo anima rigenerante del suo castello infestato dai rimpianti. Scatta verso la poltrona, attratta dalla ciotola, come dopo un lungo digiuno. La camicia di lui sembra languire pigra, con un polsino sbottonato, pencolante quasi a toccare il pavimento. La contempla lungo ogni singola cucitura, come una reliquia, e sorride instupidita, pregustando l’abuso del bambino l’attimo prima di affondare le mani nella marmellata. La accarezza senza toccarla mentre un brivido sottile lungo il collo le fa rizzare il pelo. L’afferra con entrambe le mani e se la preme forte contro il naso e la bocca, nella speranza di poterla sentire farsi corpo dentro di sé. Se la stringe al petto e torna a riaddormentarsi, esausta. Quando si risveglia, questa volta con maggior fatica, si ritrova sola.
Non si è mai sentita così sola come in quel momento.
Il cimelio è ancora tra le sue mani, può odorarlo tanto da farsi uscire il sangue dal naso. Può scolarsi all’infinito, fino ad ubriacarsi, l’immagine di lui sopra di lei, le sue mani tra i capelli, il suo piacere dentro, dentro fin nelle viscere. Poi con uno scatto ansioso si gira verso l’orologio e senza guardarlo sente il silenzio frastornante del telefono, muto, accanto al letto.
Tre ore che se ne è andato e non si è ancora degnato di una telefonata.
Tira fuori una gruccia dall’armadio. La veste con la camicia, indugiando su ogni bottone, cercando di rimanere aggrappata al flusso dei ricordi. Ogni asola violata dal dito è una stilettata alla pancia, un fermo immagine incollato come carta da parati alle curve occipitali. Ripone l’ostia consacrata mentre sente il corpo smembrarsi di colpo e la lingua ricoprirsi di pelle di pesca . Si sente donna nuda di se stessa, della sua carne collassatosi nel reticolo delle fibre. Lampi di estasi la strattonano da una parte all’altra del suo guscio incrinato mentre tenta di dar inizio a quella indecifrabile giornata, così stretta al cuore e alle labbra; così lontana dalle strade battute dall’usura del tempo.
Vuole ingannarla la verità, gettarla nella pattumiera, come un fiore appassito. Non vuol vedere quel bullone che non s’incastra e che potrebbe far crollare l’impalcatura di schianto. Vuol camminare voluttuosamente lungo l’orlo del vuoto, ballerina sospesa sulla scogliera, convinta di potersi arrampicare fino al cielo con la sola forza della disperazione.
Certo che quel figlio di un telefono potrebbe squillare.
Sono le undici e Anna vuole già riempire lo spazio tra di loro con un rigurgito di parole; o anche solo con quel suo mugugno di bambina capricciosa che le riesce così bene. Vorrebbe scrivergli un messaggio e consegnarlo al vento, sicura che questo seguirebbe le sue precise coordinate di cecchino innamorato. Ma Anna non osa. Lui è in ufficio affaccendato nei suoi ritmi, incollato al telefono.
Ma non per lei. Non ha tempo ora. Non può permettersi il lusso di chiamarla.
Forse non lo avrà nemmeno in pausa pranzo se qualche cliente lo costringerà ad una forchettata di lavoro. Un pensiero che la sfiora appena, come un’ ombra nera. Ma poi si ravvede e torna alla loro meravigliosa notte. La prima che lui le regala da quando si conoscono. Prova tangibile del suo amore, non c’è dubbio. E non c’è dubbio che anche lui è impaziente di rubarsi ai suoi affari per tornare da lei; anche solo con un ciao-tesoro-tutto-bene.
Ci vuol così poco per appagare i bisogni di un cane randagio.
Anna non s’azzarda ad uscire di casa, non può rischiare di mancare l’appuntamento con la telefonata. Si aggira per le stanze con finta premura, rassettando e spolverando. Ma lo straccio della polvere si perde dietro un termosifone e la biancheria sporca riposa abbandonata sulla poltrona del salotto. Nella cucina apre gli sportelli e tira fuori pentole e tegami. Sente ancora in bocca il gusto degli scampi di ieri. Il pesce più buono mai mangiato in sua vita. Grazie a lui Anna ha sconfitto la sua cronica inappetenza, ha riscoperto il piacere della sazietà. Si ripromette di rimpolpare quelle quattro ossa scarnificate nelle prossime settimane. Ed ora decide di riscoprirsi massaia puntuale.
Perché forse già da domani lui potrebbe fare una telefonata al volo e tornare di corsa da lei, scoparla per due ore e poi chiederle un piatto veloce prima di tornare alle sue incombenze.
Monda le patate, le taglia a dadini; lava le cipolle e le sminuzza sul tagliere commuovendosi. Fracassa le uova nella ciotola, elimina i pezzi di guscio e poi amalgama i sapori e gli odori aggiustandoli di sale e pepe. Un’ultima spolverata di pangrattato, come le ha insegnato mamma, e inforna un polpettone un po’ stecchito ma lodevole negli intenti.
Mezz’ora dopo, mentre si ustiona il palato con il suo parto culinario cerca refrigerio nelle immagini della televisione. Le notizie del TG la distraggono per qualche minuto dalla trance. Ma poi, il ricordo della carne goduta le dà un nuovo scossone. Le pupille si fissano come occhi di cieco su un punto buio, lasciandosi ammaliare dalla piena degli altri sensi.
All’una e un quarto però, il film già visto così tante volte in una sola mattina, inizia a incrinarsi sotto il gelo del disincanto, sempre più tangibile e minaccioso. Perché il telefono è muto ormai da ore e l’immagine palpitante dei loro corpi in cinemascope inizia a ingiallirsi nella loro trita cornice d’amanti.
Non ricorda quando ha iniziato ad amarlo. E perché. Quando si sono incontrati sul molo battuto dalla burrasca lei si fumava la sua sigaretta di donna temprata dalla sofferenza, che non chiedeva e non voleva più dare rispetto a nessuno. Gli uomini l’avevano delusa troppe volte per poterci ricascare, per volersi gettare a lisca nell’ennesima storia. Sbagliata. Storia impossibile. Di quelle che si mangiano a colazione col cappuccino. Una chiacchiera da bar tra uomini tronfi del loro successo inguinale. Un cicaleccio tra amiche bastonate dallo stesso bastone che si consolano a vicenda. Al loro terzo incontro gli occhi da bacherozzo innamorato sembrava averli lui. La cercava continuamente – allora sì che squillavano i telefoni!- le faceva regalini di ragazzotto stupido d’amore. E quando lo aveva detto a Rosy, Anna ostentava totale disaffezione a quell’ennesimo incipit da irresponsabili, al loro sesso gratuito consumato su una macchina sudata, a quell’uomo sottratto il tempo di un orgasmo, al suo dovere coniugale. Rosy glielo aveva detto di lasciar perdere. “Tra i due sarai solo tu a rimetterci”. Una frase che ora bussa dannatamente alla sua tempia, ma che, allora, era stata schiacciata come una mosca insolente. Dopotutto anche Rosy aveva avuto la sua storia extraconiugale da ammucchiare sotto il tappeto. E ora che s’è sposata cavalca la sua legge universale-necessaria in modo così radicato che nemmeno Kant avrebbe saputo far meglio.
Facile parlare quando si viene imboccati ogni giorno da un telefono amico.
Anna il pane quotidiano se lo deve sudare goccia a goccia, nella speranza di racimolare il suo mucchietto di briciole e camparci dignitosamente. E quella camicia appesa nell’armadio è la garanzia di aver aggiunto un tassello di continuità alla sua sopravvivenza. Perché lui chiamerà di lì a poco. E se non dovesse riuscire a chiamare dall’ufficio, questa sera si ricorderà sicuramente di spedirle un messaggio di buonanotte dal cellulare. Ma se, a fine giornata, per qualche sciagurata complicazione, non dovesse farsi vivo, lei ha l’arma in pugno. Ha il suo bottino di guerra da esibire. Da lavare e stirare. Pronta per la consegna. La prova tangibile che esiste anche lei e che potrà far valere le sue ragioni nel nome di quel pezzo bianco.
Quel fottuto brandello d’anima a cui aggrappare le ipocrisie del suo vaneggiare.
Alle tre Anna esce di casa per le sue lezioni di piano. Il Conservatorio è nella zona bene di Genova, tra i filari degli oleandri e gli scorci di mare che s’infilano in mezzo ai palazzi signorili. Oggi ci va a piedi. L’autobus stipato di puzza d’uomo la inquieta e poi ha un urgenza indiavolata di sincronizzare il passo al ritmo del suo respiro ansioso. Nella tasca dei jeans c’è un cellulare in modalità silenziosa. Lo terrà lì, incollato alla coscia tutto il pomeriggio.
Se dovesse vibrare sarebbe un segnale inequivocabile d’amore e lei lo coglierebbe in un baleno.
Durante le lezioni fissa lo sguardo sulle dita degli allievi arrovellarsi sulla tastiera. Li odia quei marmocchi insolenti pieni di ambizioni.
Non sanno, poveri illusi, che si schianteranno al suolo al primo bacio di Giuda.
Alle quattro del pomeriggio la frustrazione raggiunge il livello soglia. La sua coscienza presenta, infida, il conto del passato. Le chiede che ci sta a fare dietro ad una cattedra ad impostare metronomi invece di calcare i seggiolini dei teatri in abito lungo. Era stata un talento precoce, i suoi maestri l’avevano indirizzata alla carriera concertistica, i suoi genitori già si erano visti ricoperti d’onori nei salotti bene dei loro amici. Ma lei soffriva le platee, le facevano sudare le ascelle e i palmi delle mani. Ricorda il concerto al Carlo Felice, quello dei diplomati più meritevoli a termine del percorso accademico. Ricorda che alla fine del concerto gli aloni sotto le ascelle si erano allargati come due enormi chiazze d’olio in mare aperto. Una vergogna, anche se nessuno se ne era accorto. Ed era fuggita tra gli applausi scusandosi come se non potesse più trattenere la pipì.
Ora, a quindici anni di distanza, si sente una vinta; il pianoforte a coda giace come un cetaceo spiaggiato nel salone della casa di campagna. Che fine ha fatto il blasonato genio pianistico? Castrato dalle forbici della sua esacerbata bulimia.
Fa fatica a rimanere seduta, c’è puzza di chiuso e la fronte inizia a pesarle sugli occhi. Sta per perdere il controllo di se stessa. Succede raramente ma quando arriva la piena non la può trattenere. S’alza di scatto, facendo interrompere il viavai di scale della ragazzina al piano. Che sembra guardarla con sufficienza mentre esce dalla sala borbottando una scusa. Fuori c’è un po’ d’aria ad attenderla e una boccata di sigaretta che le penetra dentro come un dolore secco.
Il limite, alle sei e dieci, è stato superato. Lo sa che non può decidere lei quando farsi viva, che non può violare la privacy dell’uomo infedele con la ventiquattrore gonfia d’appuntamenti. Ma a questo punto se ne fotte. Il cellulare è un ferro bollente, la mano suda come a quel concerto.
Ci vorrebbe borotalco, per tamponare tutto, per tappare le narici; affogare di morte dolce e sprofondare nell’amnesia totale.
Un fruscio dietro ad un cespuglio interrompe il flusso dei suoi pensieri; osserva un gatto impigrito che le sfila davanti ostentando una calma irritante. Vorrebbe tirargli il collo a quella bestia dagli occhi di ghiaccio. Poi un sussulto. In mano una vibrazione improvvisa. Sul display un soprannome pronunciato tra i gemiti dell’amplesso, la notte scorsa. E’ il destino a chiamarli all’appuntamento, in quel luogo preciso, secondo coordinate universali ben calibrate. Non c’è dubbio che siano fatti l’uno per l’altra. Quante volte glielo ha ripetuto, scherzando a denti stretti. E ora lui non potrà negare l’evidenza di quel tempismo mistico.
Anna risponde cercando nelle corde vocali un “ciao tesoro” che non tradisca le palpitazioni da attesa spasmodica; che annulli lo spazio del tempo e li ricongiunga con naturalezza in quel discorso sospeso poche ore prima.
Ma le gambe le si fanno gelatina quando dall’altro capo, un’inequivocabile voce femminile ferma l’aria e la sprofonda in uno sgomento senza parole.

Barbara Rossi

Io sottoscritta Rossi Barbara dichiaro che il racconto che ha come titolo “Il gusto amaro del mattino” è frutto del mio ingegno.

martedì 25 ottobre 2011

Concorso "4 Pagine in Vacanza" ecco il secondo classificato


I RICORDI DEL CREPUSCOLO

Siracusa 368 a. c.
Dopo averlo scorso distrattamente, buttò con insofferenza il rotolo di pergamena in un angolo dello scrittoio e dopo un lungo, stanco, sospiro, si alzò dallo scranno e cominciò a girare per la stanza
misurandola a lunghi e lenti passi quindi, indossò il mantello ed uscì.
- Aristarco - disse rivolto ad una delle due guardie di piantone - fa chiamare il segretario e quando sarà qui digli che deve leggere il messaggio della lega italiota. Domani alle prime luci lo voglio a rapporto per sapere se è tutto in regola!
-Sarà fatto come ordini Egemone!- rispose il soldato attivandosi immediatamente dopo aver salutato il proprio comandante.
Questi si diresse subito verso l' uscita della fortezza al piano inferiore, congedando la guardia
personale che lo attendeva nel corridoio e scomparendo inghiottito dall' androne delle scale.
Una volta fuori, il contatto con la brezza marina e i raggi del sole calante sul viso lo ristorarono, e dopo aver respirato l' aria salmastra a pieni polmoni tirò sù il cappuccio del mantello e si avviò
verso il porto grande.
Nonostante ci sarebbe stata luce ancora per poco, la laguna brulicava ancora di marinai, facchini, commercianti, schiavi, impegnati nello scarico e nel trasporto delle merci verso le botteghe o i
magazzini.
L' economia della città non era mai stata così florida grazie ai commerci con le colonie fondate su entrambe le sponde dell' Adriatico, sul quale esercitava quindi una forma del tutto esplicita di
talassocrazia, e la ricchezza generata da questa condizione andava ad alimentare la poderosa
struttura bellica che altro non era se non il cuore dell'egemonia politica della pòlis sulle colonie e sull' Italia.
Dopo pochi passi, scorse sul molo più a nord, quello riservato alle navi che consegnavano le merci per lo Stato o per i suoi funzionari più eminenti, la sagoma esile ma fiera del suo primo consigliere.
Avvicinandosi lo sentì che inveiva contro il pingue e servile mercante, probabilmente ionio, con cui discuteva, salvo riprendere in un attimo il contegno da uomo di stato e di lettere qual' era. Decise di fermarsi nei pressi ad osservare la scena.
-E dunque, con quelle due anfore di vino di Lesbo che encomiabilmente mi doni, considero ripagata la pessima qualità della tua ultima consegna, fai buon viaggio Ascalafo!
- Scaricatele e portatele a casa mia!- disse rivolto a quattro operai di fiducia che aveva con sé.
Il povero mercante, divenuto una maschera di incredulità, fece per protestare, ma gli uscì solo uno squittio senza speranze, che non lambì nemmeno il suo interlocutore, che se ne era già andato.
L' uomo col cappuccio calato si mosse - Buon Filisto. Allora è vero che in ogni filosofo, in qualche modo, si cela un mercante!
- Per Apollo, Dionisio che fai a spasso per il porto da solo, e al tramonto per giunta!
L' uomo era spiazzato, e quando il duce congedò anche le sue guardie pensò di avere le
allucinazioni.
- Vieni, fratello, questa non è un' ora da passarsi con le guardie, non oggi, vieni sediamo!
Quel comportamento allarmava Filisto, ma ancora prima lo incuriosiva. Capì, però, che fare
domande non sarebbe servito, e una volta seduti su uno dei sedili marmorei del molo, rimasero a guardare il mare in silenzio per un poco, poi Dionisio parlò.
- Ahh, per Zeus, se avessi saputo che quest' anno elafebolione sarebbe stato così caldo non avrei perso tempo partecipando all' agone tragico ad Atene, avrei attaccato Cartagine!
- Non hai tutti i torti, ma dedicarti a qualcosa di diverso da guerra e politica potrebbe giovarti - disse Filisto.
Il padrone di Siracusa pareva non averlo nemmeno sentito, e dopo una lunga, immobile pausa buttò indietro il cappuccio, liberando i capelli che nonostante l'età, ormai oltre i sessant' anni, erano
ancora neri, eccetto le zone grigie sulle tempie.
- Sai che giorno è oggi Filisto? - domandò, fissandolo improvvisamente con quello sguardo di ferro che ormai da molti anni piegava invariabilmente le volontà di coloro che lo incrociavano compresa quella del primo consigliere che, inquietato, non articolò verbo.
- Oggi è il compleanno di Arete!
- Ma Dionisio, tua figlia...
- No fratello. Non mia figlia. Mia moglie!
L' amico udendo quel nome riemergere dagli abissi di quella che sembrava essere ormai un' altra vita, fu sul punto di farsi travolgere dall' emozione. Era un ricordo che credeva cancellato per
sempre dalla mente del suo signore, che da moltissimi anni non nominava quella fanciulla dal
destino così disgraziato.
- Sì, capisco il tuo stupore amico mio - riprese Dionisio - ma tu che mi conosci fin da quando
eravamo ragazzi dovresti sapere che ho una parola sola, e a lei avevo consacrato me stesso. La morte non cambia certe cose. Nemmeno una morte come la sua. Quei bastardi vigliacchi dopo aver inferto ogni ingiuria possibile al suo corpo e al suo onore non ebbero neanche la pietà di ucciderla. La abbandonarono, costringendola a farlo da sola!
Filisto, al pensiero del fardello che l' amico portava da tanto tempo si sentì oppresso ma trovò
finalmente la forza di dire con un filo di voce:
- Tutto questo hai covato in te, nonostante nei lunghi anni le tue due mogli ti abbiano dato amore ed eredi! Credevo che dare quel nome alla tua unica figlia fosse più un omaggio al tuo vecchio
comandate e idolo Ermocrate, padre di Arete, che un perpetuare quell' amore!
Dionisio seguì per un momento la danza dei gabbiani sullo specchio d' acqua.
- L' amore è un demone, filosofo. Ti seduce mostrandosi con un profilo di bellezza irresistibile, mentre il profilo che non vedi trama per te dolore e rovina. Le mie mogli, anche nel fulgore dei loro anni migliori, non sono state che un pallido simulacro di Arete. Nella mia vita ho affrontato
moltitudini di nemici, espugnato, costruito e raso al suolo città, evaquato o deportato intere
popolazioni. Ho concepito strumenti di morte impensabili ed ho bonificato immensi territori, ho reso la nostra Siracusa la pòlis più potente del mondo greco e, se gli Dei mi sosterranno, annienterò il barbaro al di là del mare che tante sciagure ci ha inferto. Ma nessuna di queste cose mi ha fatto dimenticare il profumo della sua pelle o il colore dei suoi occhi, la mia bocca non ha mai più provato nulla di paragonabile al sapore dei suoi baci. E mai nessuna cosa che ho visto ha dilaniato il mio senno come il suo corpo freddo.
Filisto si sentiva vuoto, un fantoccio di carne, osservava l'amico con esterrefatta fissità, e questi lo guardò a sua volta, ma ora con lo sguardo di chi chiede comprensione per il proprio dolore sepolto.
- Già fratello, tutto ciò che ho fatto l' ho fatto perché non potevo fermarmi, non potevo lasciare che
qualcuno mi togliesse di mezzo, ero costretto a diventare sempre più forte per non morire. Non per brama di potere, no, ma semplicemente perché quando morirò di Arete non rimarrà traccia in questo mondo, visto che io sono l' unico che ne conserva il ricordo. Tu non l'hai conosciuta, e tutti gli altri presenti allora non sono più ormai da molti anni. E so che non resta molto nemmeno a me, sento già l' oscura volontà delle parche tendere il mio filo.
Il letterato era completamente muto, a cercare di farsi una ragione di ciò che aveva sentito in quel giorno così diverso dagli altri, quando Dionisio si alzò in piedi.
Il vecchio tiranno respirò profondamente osservando il mare, poi si volse improvvisamente
puntellando di nuovo Filisto al sedile con l' unico sguardo di cui il mondo lo credeva capace.
- Ti saluto amico e ti ordino di scordare questo crepuscolo. Hai visto un Dionisio morto da molto tempo e quel Dionisio non serve più, ora esiste solo il tiranno! Domani parto per Atene, ci vedremo al mio ritorno. Addio - Si tirò il cappuccio in testa e s'incamminò verso la fortezza dell' Ortigia.
Mentre il sole, bassissimo sull' orizzonte, infuocava cielo e mare, Filisto, aveva così tanti pensieri in mente da non riuscire a focalizzarne nessuno, e la sola cosa che riuscì a fare fu seguire l' amico con lo sguardo, mentre se ne andava trascinando la sua lunghissima ombra.
Sei giorni dopo, durante un assolato mattino di quella stagione insolitamente già così calda, stava attendendo alla stesura della sua opera storica nello studio da cui dominava il porto Lakkios.
Fu interrotto dall'arrivo di un corriere che gli portava la notizia della morte di Dionisio, avvenuta la sera stessa della sua vittoria nell' agone tragico ad Atene, subito dopo i festeggiamenti.
Non appena fu solo, Filisto pianse, pianse amaramente, come non credeva che potesse più essergli possibile alla sua età e dopo la vita, piena di ogni sorta di emozioni, che aveva vissuto.
Pianse affranto per il suo duce e amico, col quale aveva condiviso il sogno di una vita.
Ma soprattutto pianse per Arete, sconvolto dalla consapevolezza che, ormai, anche l' ultimo ricordo di lei si era dissolto. Colei che per oltre quarant' anni, gelosamente celata a chiunque, era stata l' ultima vestigia di umanità di un uomo sanguinario che aveva soppresso ogni emozione fino a non provarne forse nemmeno più, aveva cessato di essere.
Quando il tumulto dei sentimenti in lui si affievolì, si fece mescere da un servo un bicchiere di vino nella proporzione che si addiceva a un greco e brindò, solo, al ricordo degli antichi amanti.
Allora capì che la storia era l' unica speranza contro quell'iniquità, l' unico modo in cui non tutto di loro, di lui, e di chiunque altro percorresse i sentieri di una vita mortale, andasse perduto.
Da uomo di stato avrebbe dovuto occuparsi della successione senza indugio, contattare i membri del consiglio di guerra per gestirne la sicurezza, ed istruire Dionisio il Giovane sul da farsi, prima che la madrepatria Corinto mettesse bocca negli affari di Siracusa approfittando del clima d' incertezza.
Ma non fece nessuna di quelle cose.
Tornò senza esitazione al suo scrittoio, ma invece di tentare di plasmare ciò che sarebbe stato, pensò di compiere un' opera molto più meritevole narrando ciò che fu.  

Luca Orlandi

Io Luca Orlandi dichiaro che il presente racconto intitolato “I RICORDI DEL CREPUSCOLO” è frutto del mio ingegno.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il Racconto CASH vince il concorso "4 Pagine in Vacanza"


CASH


La madre di Cash era italiana, il padre veniva dal posto di merda in cui è tornato dopo aver messo incinta una ragazza di 17 anni. Cash e la madre si sono dovuti arrangiare da sempre, si dice che non esista una foto di lui bambino, forse perchè non lo è realmente mai stato. Cash è cresciuto in un circo, un universo di terra, lacrime e sudore, come lo definisce lui. Non era nessuno lì dentro, non era un saltimbanco, un trapezista o un clown. Non era un elefante, una tigre o un leone ma era tutti loro dal momento che viveva per loro, respirava la loro fatica, mangiava i loro avanzi e si esercitava al loro posto. Non era nessuno ma la sua esistenza era giustificata in quell'universo ordinato, delimitato dai paletti del tendone e dalle urla dei bambini che coprivano il silenzio informe del mondo fuori.
Sua madre era una trapezista, bellissima e sbagliata nella sua bellezza, sorrideva sempre dietro strati infiniti di trucco, pesante come il peso dei suoi ricordi.
Cash divenne un delinquente quando decise di rinunciare a tutto quello, quando barattò la certezza di quel mondo squallido con l'incertezza del mondo fuori, squallido anch'esso in verità ma esaltante nella sua indefinita incorporeità.

Oggi è domenica, ho ancora gli occhi chiusi, sento i passi leggeri di mia madre che si muove nella penombra della nostra roulotte, le tende sono ancora tirate e la caffettiera è sul fornello da campeggio che fischia come un treno in corsa. Questa è perfezione, la domenica, il simbolo del tempo che torna sempre a se stesso, che fugge da quella linearità che inesorabile conduce verso la fine dei giorni.
“Cash svegliati, sono già le sei, il caffè è pronto”. Tengo gli occhi chiusi, caparbiamente stretti.
“Lo so che sei sveglio, stai strizzando gli occhi come un bambino piccolo che finge di dormire”. Io sono un bambino, ho sonno, e questo piumone mi avvolge come una seconda pelle, se me lo toglie muoio, lo so.
“Cash, ti prego, oggi è domenica, devo preparare il numero per lo spettacolo del pomeriggio e se tu non ti alzi Oleg non te la farà passare liscia”. Quel nome mi fa venire la pelle d’oca, ora non c’è più piumone che tenga. Grazie mamma, mi hai rovinato un’altra domenica, e so che mi rovinerai anche la prossima, e tutte le altre che seguiranno. Maledetto tempo che torna sempre a se stesso.
Solletico. Lo odio. “Basta mamma”. Non la vedo ma so che sta ridendo forte, a bocca aperta. Li vedo i suoi denti ingialliti dal fumo e dallo squallore, stonano con il suo sorriso d’amore, che è sempre e solo riservato a me.
Comincio a ridere, forte, mi vengono le lacrime, vorrei gridare contro di lei, contro questa nostra vita sbagliata, contro la sua voglia di vivere, contro questi 12 anni che fanno di me un bambino che non può scappare; ma rido sempre più forte, all’unisono con lei, in quello che è stato il nostro ultimo grido di dolore.
Mentre mi metto i miei jeans, gli unici che ho, e la mia maglietta preferita, guardo la mamma che si prepara. è bellissima, ha i capelli biondi, sempre incasinati anche se li pettina di continuo, gli occhi tristi, un po’ cadenti che stonano con le pieghe del suo sorriso, sempre rivolte al cielo. Si sta truccando davanti allo specchio, vedo la sua immagine riflessa, incorniciata dalle uniche due lampadine che non si sono ancora bruciate. Continua a passarsi il colore sugli occhi con insistenza, troppo come sempre, la fa sembrare una donna violentata dal colore.
“Basta mamma, sei bella così”
“Lo sai come mi vuole Oleg, dice che più sono truccata più illumino la scena”
“Più sei truccata e più sembri una puttana, questo intende dire”
Lo schiaffo mi prende in piena faccia, pieno di quell’orrendo presagio che già ci stava avvolgendo dal risveglio.
Le do un bacio forte per oltrepassare quella barriera di trucco e esco tirandomi dietro la porta scardinata della roulotte.
“Cash!” “Ci vediamo in scena?” Mi grida lei sporgendosi dalla minuscola finestrella.
Le riservo un sorriso tutto speciale, uno dei suoi, di quelli che dicono tutto, di quelli che chiedono scusa

La mia mano è rossa di vergogna, non dovevo dargli quello schiaffo, è un bravo ragazzo ed è dovuto crescere troppo in fretta per colpa mia. Cash ha sempre ragione ed è vero che io sembro una puttana così conciata, la puttana di Oleg. Darei qualsiasi cosa per non dover salire sul trapezio questa sera, non sono concentrata, mi sento instabile e non è da me.
Questa è una di quelle giornate dove i miei pensieri decollano e sono triste senza una ragione in particolare, mi guardo indietro e mi si ferma il respiro, comincio a fare due conti sugli anni che mi sono lasciata alle spalle e mi viene un nodo in gola. Mancano troppe cose in quegli anni, quelle che non ti ricapitano più, le occasioni irripetibili, certe cose vanno fatte al momento giusto se no poi si sedimentano sotto strati infiniti di responsabilità, delusioni e incertezze e non si possono più riesumare.
Mio figlio diventerà qualcuno, me lo sento, l’ho sempre saputo, ma lo dovrà fare senza di me perché io sono una favola triste, di quelle senza lieto fine. Mio figlio invece è un mito senza tempo, imperturbabile nel suo cammino, e, anche se non ne è ancora consapevole, ha un percorso preciso inscritto dentro di lui, deve solo salvarlo da quella mareggiata invadente che è la nostra vita.
Mi sto perdendo e non ho nessuna intenzione di ritrovarmi, ho dato uno schiaffo a Cash stamattina, lui è rimasto in piedi e io sono caduta.

La mia mamma è distesa in mezzo all’arena, le luci dei riflettori la immortalano violentemente per poi spegnersi in un finto moto di compassione.
La guancia mi pulsa, la mia mamma è distesa in mezzo all’arena.
Ha volato, non l’avevo mai vista volare, mi è sembrata libera in quel momento e felice come non lo è mai stata. Potrei giurare di averla vista sorridere, in un lampo, impercettibile, prima di schiantare la sua libertà su quella terra di nessuno.
Lì distesa sembra una regina, è immortale, dopo anni di vulnerabile e mortale fragilità è diventata immortale. Mi accorgo solo ora del suo volto, è senza trucco. Capisco che si è buttata e che non è stato un incidente. Non si sarebbe mai esposta al pubblico senza trucco. Si è buttata per me, si è ribellata a Oleg, si è buttata nel vuoto e per l’occasione ha sfoggiato un’espressione speciale, limpida e serena.
Vorrei correre da lei ma ho paura che ci scoprano, che si rendano conto che si è buttata di proposito e questo non deve succedere, l’ha fatto per me ed è come se l’avesse confidato solo a me. Mi alzo, deciso e imperturbabile, non so assolutamente dove andare ma so che il punto di partenza è esattamente al varco tra il tendone e la vita vera. Mi alzo e comincio a camminare in mezzo alla folla urlante di terrore, mi faccio strada a fatica, non mi nota nessuno, sono tutti impegnati a guardare la mia mamma come se fosse carne da macello. Mi volto un momento, la guardo per un’ultima volta, le sorrido come a chiederle scusa e me ne vado per sempre da questo universo di terra, lacrime e sudore.
Ho lasciato solo una cosa al di là del confine del circo, Juliette. Me la sono dimenticata dentro. Aveva i capelli castani, gli occhi grandi e spaventati, e una smorfia che recitava tutte le sue emozioni, le si increspava tutta la pelle nel punto in cui il naso si incontra con la fronte, come un foglio di carta appallottolato, buttato via e poi recuperato. Era un modo di darsi una possibilità in più, per disprezzarsi un po’ meno, anche perché non era colpa nostra se eravamo nati in gabbia, come animali in uno zoo.
L’ultimo giorno, prima della mia fuga, ci siamo incontrati per l’ultima volta. Lei stava lavando Misha, l’elefantessa, io le sono passato davanti e lei mi ha guardato dritto negli occhi, senza sorridermi, solo corrugando la fronte in un' espressione di rabbia pura, tutta per me.
Non potevo sopravvivere a quello sguardo, faceva troppo male. Mi avvicinai a lei , spaventato, cosa potevo averle mai fatto? “Jules, cosa succede?” Lei continuava a guardarmi senza proferire parola.
Silenzio, squarciante e rumoroso silenzio.
“Senti, io devo andare a vedere lo spettacolo di mia madre, sai com’è, lei non comincia se non mi vede”. Mi allontanai da lei a fatica, era bellissima e cattiva, mi guardava come se la stessi tradendo, come se la stessi abbandonando in mezzo alla strada. Avevo solo voglia di chiederle scusa, qualsiasi cosa le avessi fatto era imperdonabile se l’ aveva fatta soffrire così. “Mi dispiace tanto” le dissi, e mi allontanai in direzione degli spalti. La sentii alzarsi e correre verso di me, mi serrò le braccia da dietro e mi strinse in un abbraccio convulso e singhiozzante. Stemmo in quella posizione per tanto tempo, ci trovammo sospesi a mezz’aria,io e lei. Il suo respiro delicato mi sfiorava le orecchie, poi tutto a un tratto divenne più prepotente e si trasformò in una frase “Non te ne andare, ti prego, non senza di me, non oggi”
Mi girai di scatto, incredulo. “Guarda che io non me ne vado da nessuna parte ora, non senza di te, lo prometto”.Le diedi un bacio sulla fronte, nel punto in cui si incontra con il naso, e sulla bocca. “Ora sono le tue rughe e il tuo sorriso”. Prima di andarmene le dissi ancora una cosa. “Io non me ne vado Juliette, non è l'amore che va via...”
Corsi via senza fermarmi fino agli spalti. Appena in tempo, le luci dei riflettori si accesero tutte rivolte verso mia madre. Fu l’ultima volta che vidi Juliette e la prima che infransi una promessa.
...ma il tempo, quello sì, che è andato via.


Giulia Manno


Io sottoscritta Giulia Manno dichiaro che il racconto che ha come titolo Cash è frutto del mio ingegno”.



4 Pagine in Vacanza: I Vincitori

Il concorso “4 pagine in vacanza”, organizzato dal gruppo Alassioresurrection, giunge ormai al termine. Il concorso ha avuto un grande riscontro, i racconti ricevuti sono stati più di 90, provenienti da tutta Italia, ciò a dimostrazione di come la passione possa ancora muovere gli animi, anche in considerazione del fatto che i premi non erano cospicui e non in denaro.
I racconti sono stati letti con passione e scrupolosità e giudicati nel rispetto dell’anonimato degli autori. E’ con grande sorpresa e immenso piacere che la giuria comunica la rosa dei tre finalisti: la prima classificata è una giovane alassina, Giulia Manno con il racconto “Cash”, che ci ha colpito per la sua freschezza e spiccata capacità di coinvolgere il lettore nella narrazione. Il secondo classificato è Luca Orlandi, modenese, con il racconto “I ricordi del crepuscolo” che si è distinto per lo stile narrativo sofisticato e l’originalità dell’ambientazione storica. Il terzo classificato è Barbara Rossi, ingauna, con il racconto “Il gusto amaro del mattino” che è riuscita a esprimere la conflittualità delle relazioni di coppia con una sensibilità prettamente femminile. Una menzione speciale della giuria va allo scritto “Ruba acqua” di Francesco Vasco che in poche frasi ha colto il tema del concorso, rimanendo in bilico tra poesia e racconto. La premiazione si terrà venerdì 28 ottobre alle ore 18.00 presso la libreria Mondadori di Alassio in Via Vittorio Veneto 132. Durante la premiazione verranno letti i racconti vincitori del concorso. I racconti premiati saranno pubblicati con cadenza settimanale a partire da Mercoledì 19 ottobre sul blog www.alassioresurrection.blogspot.com, in seguito saranno pubblicati i racconti preferiti dei giurati e una selezione dei migliori racconti ricevuti.

 Alassio Resurrection

venerdì 14 ottobre 2011

TUTTO E’ INIZIATO QUANDO HANNO CHIUSO IL CIRCOLO BRIXTON


Tutto è iniziato quando hanno chiuso il circolo Brixton, i ragazzi erano veramente incazzati. Seduti in una stanza stavano pensando a che fare. Poi iniziarono a chiudere gli altri locali. I pochi bar rimasti spensero la musica, la gente parlava sotto voce nei dehors. Le poche urla erano quelle di chi scappava, di chi aveva deciso di lasciare la città. I pochi giovani rimasti, vivevano delle rimesse degli immigrati, ma non di danaro, bensì dei racconti di come il mondo al di fuori di Alassio fosse colorato, pieno di suoni, di melodie e di persone che ridevano. Piano piano andarono via tutti. I pochi rimasti si chiusero sempre di più, iniziarono a odiare qualsiasi tipo di diversità, continuarono a mettere divieti, a denunciare il vicino di casa in modo anonimo, e ad attaccare chiunque non fosse come loro s’immaginavano. Alassio perse ogni possibilità di votarsi al futuro, i vecchi lasciavano il mondo per sempre e nessuno li sostituì. Ad Alassio non c’era più nessuno. Se non case vuote, scuri tappati, e quelli che fieri avevano lottato affinché Alassio restasse vittima di un silenzio che puzza di tristezza, solitudine e miseria. Tutto è iniziato quando hanno chiuso il circolo Brixton.
A.R.

mercoledì 5 ottobre 2011

Berlusconi non va più di moda


Berlusconi non va più di moda perché chi lo ha difeso fine a pochi mesi fa, ora è fra i più biechi e indignati accusatori. Resta lì, tiene duro e mostra, palesemente, il volto patetico che grazie all’informazione dalla sua parte ha sempre mascherato. Come è possibile che un presidente del consiglio gestisca il 90% dell’informazione? In Italia è successo, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Berlusconi è passato di moda perché i cattolici non possono più votarlo, secondo i moralismi che diventano più forti in un periodo in cui si perde il senso della morale, il suo atteggiamento è inconcepibile e intollerabile. Il senso della famiglia, dell’amore, dell’onestà, dell’amicizia soccombono, come in un cartone animato che finisce male sotto la pressione di potere, violenza, prepotenza e favoritismi. L’informazione continua a distruggere gli avversari politici, a mostrare il lato peggiore dell’uomo, a dare importanza a cose che non ce l’hanno solo per giustificarlo. I risultati sono pessimi.
Come poter oggi credere e avere fede nella patria o nel tricolore, o nelle stato o nelle istituzioni? Non c’è rimasto quasi nulla, se non un senso di odio e disprezzo, e una volontà impotente di rovesciare tutto e ricominciare da capo. Invece subiamo passivi il malcostume, la corruzione, la devastazione di concetti e ideologie, a vantaggio del nulla, a vantaggio di una mentalità che ha perso, e continuerà a far perdere tutti rendendo il terreno su cui dovrà avvenire la ripresa, sempre più arido.
Berlusconi è passato di moda perché chi lo invidiava, chi lo ammirava, chi osannava il suo successo oggi ha capito di essere un frustrato e fallito. Perché per conquistare una donna non ci vuole potere o danaro, per avere successo non bisogna giocare fuori dalle regole e soprattutto per vivere felice bisogna assecondare altri valori e avere in sé saldi i principi che siano da guida in questi momenti di confusione. L’imprenditore che dava sicurezze, perché aveva avuto successo nella vita ed era ricco ergo non voleva entrare in politica per i suoi interessi, il difensore dello spirito patrio, l’esempio dell’italianità più recondita è arrivato ad essere un piagnucoloso e irritante vecchietto che è zimbello d’Europa.
Berlusconi è passato di moda perché le donne hanno capito che quell’uomo così attento ha mercificato come non mai il sesso femminile e ha dato adito all’immagine di una donna ancella o puttana, capace con il corpo e con il suo mestiere di fare carriera. Le donne sono molto di più. Quelle femmine che hanno mandato avanti famiglie, cresciuto figli, e poi negli anni a venire hanno svolto con capacità e professionalità ruoli che spettavano storicamente agli uomini. Intellettuali, dottoresse, giornaliste.
Berlusconi è passato di moda perché stiamo già pensando al “dopo”, con timore, poiché la giustizia sociale è ai minimi termini, perché riportare fiducia e fede nelle istituzione sarà un cammino lungo e tempestato d’insidie, perché dopo gli ultimi dieci anni la gente è inane e demoralizzata. Siamo arrivati a tollerare l’insulto, siamo arrivati a non avere più rispetto, ad usare parolacce e imprecazioni. Intanto ormai vale tutto, senza regole e senza valori. Perché? Perché abbiamo fatto questa fine? Perché le persone non hanno capito che l’informazione è pilotata e gestita dal potere, perché ogni spettacolo, ogni telegiornale, ogni varietà ha dovuto in dieci anni salvare il consenso e oggi, nonostante il martellamento continuo, il consenso è sceso a percentuali bassissime.
Berlusconi è passato di moda perché chi segue il suo esempio non arriverà mai, perché la vita è come un impianto produttivo che vive nella speranza di una continua crescita, ma che non può avere una continua crescita. Ergo non si può avere sempre di più, perché il limite non è nella potenzialità ma nell’ossessiva e psicotica ricerca eterna di ciò che non hai. Si può benissimo vivere bene senza per forza desiderare ciò che non si ha.
Il futuro è un progetto, il passato che racchiude Berlusconi e il berlusconesimo è un momento storico che sarà ricordato nella storia come uno dei più bui della nostra cara Italia, e sarà probabilmente un format ripreso da altri stati in via di sviluppo per controllare le persone e impostare un regime senza scadere in persecuzioni e assassini. Ora sta a noi riuscire a ritrovare lo spirito e gli obbiettivi che avevamo 15 anni fa, e cercare di ricostruire ogni piccolo angolo del nostro mondo. L’Italia è ancora lì che aspetta, le persone ci sono, così le menti, così le idee. Basta essere la barzelletta d’Europa, basta essere schiavi di falsi bisogni, basta aspettare che gli altri ci dicano cosa fare, basta aspettare pazienti che ci facciano spazio.
Berlusconi è passato di moda perché questa mentalità è una mentalità perdente, e ha perso.

Schivo Giorgio