CASH
La madre di Cash era italiana, il padre veniva dal posto di merda in cui è tornato dopo aver messo incinta una ragazza di 17 anni. Cash e la madre si sono dovuti arrangiare da sempre, si dice che non esista una foto di lui bambino, forse perchè non lo è realmente mai stato. Cash è cresciuto in un circo, un universo di terra, lacrime e sudore, come lo definisce lui. Non era nessuno lì dentro, non era un saltimbanco, un trapezista o un clown. Non era un elefante, una tigre o un leone ma era tutti loro dal momento che viveva per loro, respirava la loro fatica, mangiava i loro avanzi e si esercitava al loro posto. Non era nessuno ma la sua esistenza era giustificata in quell'universo ordinato, delimitato dai paletti del tendone e dalle urla dei bambini che coprivano il silenzio informe del mondo fuori.
Sua madre era una trapezista, bellissima e sbagliata nella sua bellezza, sorrideva sempre dietro strati infiniti di trucco, pesante come il peso dei suoi ricordi.
Cash divenne un delinquente quando decise di rinunciare a tutto quello, quando barattò la certezza di quel mondo squallido con l'incertezza del mondo fuori, squallido anch'esso in verità ma esaltante nella sua indefinita incorporeità.
Oggi è domenica, ho ancora gli occhi chiusi, sento i passi leggeri di mia madre che si muove nella penombra della nostra roulotte, le tende sono ancora tirate e la caffettiera è sul fornello da campeggio che fischia come un treno in corsa. Questa è perfezione, la domenica, il simbolo del tempo che torna sempre a se stesso, che fugge da quella linearità che inesorabile conduce verso la fine dei giorni.
“Cash svegliati, sono già le sei, il caffè è pronto”. Tengo gli occhi chiusi, caparbiamente stretti.
“Lo so che sei sveglio, stai strizzando gli occhi come un bambino piccolo che finge di dormire”. Io sono un bambino, ho sonno, e questo piumone mi avvolge come una seconda pelle, se me lo toglie muoio, lo so.
“Cash, ti prego, oggi è domenica, devo preparare il numero per lo spettacolo del pomeriggio e se tu non ti alzi Oleg non te la farà passare liscia”. Quel nome mi fa venire la pelle d’oca, ora non c’è più piumone che tenga. Grazie mamma, mi hai rovinato un’altra domenica, e so che mi rovinerai anche la prossima, e tutte le altre che seguiranno. Maledetto tempo che torna sempre a se stesso.
Solletico. Lo odio. “Basta mamma”. Non la vedo ma so che sta ridendo forte, a bocca aperta. Li vedo i suoi denti ingialliti dal fumo e dallo squallore, stonano con il suo sorriso d’amore, che è sempre e solo riservato a me.
Comincio a ridere, forte, mi vengono le lacrime, vorrei gridare contro di lei, contro questa nostra vita sbagliata, contro la sua voglia di vivere, contro questi 12 anni che fanno di me un bambino che non può scappare; ma rido sempre più forte, all’unisono con lei, in quello che è stato il nostro ultimo grido di dolore.
Mentre mi metto i miei jeans, gli unici che ho, e la mia maglietta preferita, guardo la mamma che si prepara. è bellissima, ha i capelli biondi, sempre incasinati anche se li pettina di continuo, gli occhi tristi, un po’ cadenti che stonano con le pieghe del suo sorriso, sempre rivolte al cielo. Si sta truccando davanti allo specchio, vedo la sua immagine riflessa, incorniciata dalle uniche due lampadine che non si sono ancora bruciate. Continua a passarsi il colore sugli occhi con insistenza, troppo come sempre, la fa sembrare una donna violentata dal colore.
“Basta mamma, sei bella così”
“Lo sai come mi vuole Oleg, dice che più sono truccata più illumino la scena”
“Più sei truccata e più sembri una puttana, questo intende dire”
Lo schiaffo mi prende in piena faccia, pieno di quell’orrendo presagio che già ci stava avvolgendo dal risveglio.
Le do un bacio forte per oltrepassare quella barriera di trucco e esco tirandomi dietro la porta scardinata della roulotte.
“Cash!” “Ci vediamo in scena?” Mi grida lei sporgendosi dalla minuscola finestrella.
Le riservo un sorriso tutto speciale, uno dei suoi, di quelli che dicono tutto, di quelli che chiedono scusa
La mia mano è rossa di vergogna, non dovevo dargli quello schiaffo, è un bravo ragazzo ed è dovuto crescere troppo in fretta per colpa mia. Cash ha sempre ragione ed è vero che io sembro una puttana così conciata, la puttana di Oleg. Darei qualsiasi cosa per non dover salire sul trapezio questa sera, non sono concentrata, mi sento instabile e non è da me.
Questa è una di quelle giornate dove i miei pensieri decollano e sono triste senza una ragione in particolare, mi guardo indietro e mi si ferma il respiro, comincio a fare due conti sugli anni che mi sono lasciata alle spalle e mi viene un nodo in gola. Mancano troppe cose in quegli anni, quelle che non ti ricapitano più, le occasioni irripetibili, certe cose vanno fatte al momento giusto se no poi si sedimentano sotto strati infiniti di responsabilità, delusioni e incertezze e non si possono più riesumare.
Mio figlio diventerà qualcuno, me lo sento, l’ho sempre saputo, ma lo dovrà fare senza di me perché io sono una favola triste, di quelle senza lieto fine. Mio figlio invece è un mito senza tempo, imperturbabile nel suo cammino, e, anche se non ne è ancora consapevole, ha un percorso preciso inscritto dentro di lui, deve solo salvarlo da quella mareggiata invadente che è la nostra vita.
Mi sto perdendo e non ho nessuna intenzione di ritrovarmi, ho dato uno schiaffo a Cash stamattina, lui è rimasto in piedi e io sono caduta.
La mia mamma è distesa in mezzo all’arena, le luci dei riflettori la immortalano violentemente per poi spegnersi in un finto moto di compassione.
La guancia mi pulsa, la mia mamma è distesa in mezzo all’arena.
Ha volato, non l’avevo mai vista volare, mi è sembrata libera in quel momento e felice come non lo è mai stata. Potrei giurare di averla vista sorridere, in un lampo, impercettibile, prima di schiantare la sua libertà su quella terra di nessuno.
Lì distesa sembra una regina, è immortale, dopo anni di vulnerabile e mortale fragilità è diventata immortale. Mi accorgo solo ora del suo volto, è senza trucco. Capisco che si è buttata e che non è stato un incidente. Non si sarebbe mai esposta al pubblico senza trucco. Si è buttata per me, si è ribellata a Oleg, si è buttata nel vuoto e per l’occasione ha sfoggiato un’espressione speciale, limpida e serena.
Vorrei correre da lei ma ho paura che ci scoprano, che si rendano conto che si è buttata di proposito e questo non deve succedere, l’ha fatto per me ed è come se l’avesse confidato solo a me. Mi alzo, deciso e imperturbabile, non so assolutamente dove andare ma so che il punto di partenza è esattamente al varco tra il tendone e la vita vera. Mi alzo e comincio a camminare in mezzo alla folla urlante di terrore, mi faccio strada a fatica, non mi nota nessuno, sono tutti impegnati a guardare la mia mamma come se fosse carne da macello. Mi volto un momento, la guardo per un’ultima volta, le sorrido come a chiederle scusa e me ne vado per sempre da questo universo di terra, lacrime e sudore.
Ho lasciato solo una cosa al di là del confine del circo, Juliette. Me la sono dimenticata dentro. Aveva i capelli castani, gli occhi grandi e spaventati, e una smorfia che recitava tutte le sue emozioni, le si increspava tutta la pelle nel punto in cui il naso si incontra con la fronte, come un foglio di carta appallottolato, buttato via e poi recuperato. Era un modo di darsi una possibilità in più, per disprezzarsi un po’ meno, anche perché non era colpa nostra se eravamo nati in gabbia, come animali in uno zoo.
L’ultimo giorno, prima della mia fuga, ci siamo incontrati per l’ultima volta. Lei stava lavando Misha, l’elefantessa, io le sono passato davanti e lei mi ha guardato dritto negli occhi, senza sorridermi, solo corrugando la fronte in un' espressione di rabbia pura, tutta per me.
Non potevo sopravvivere a quello sguardo, faceva troppo male. Mi avvicinai a lei , spaventato, cosa potevo averle mai fatto? “Jules, cosa succede?” Lei continuava a guardarmi senza proferire parola.
Silenzio, squarciante e rumoroso silenzio.
“Senti, io devo andare a vedere lo spettacolo di mia madre, sai com’è, lei non comincia se non mi vede”. Mi allontanai da lei a fatica, era bellissima e cattiva, mi guardava come se la stessi tradendo, come se la stessi abbandonando in mezzo alla strada. Avevo solo voglia di chiederle scusa, qualsiasi cosa le avessi fatto era imperdonabile se l’ aveva fatta soffrire così. “Mi dispiace tanto” le dissi, e mi allontanai in direzione degli spalti. La sentii alzarsi e correre verso di me, mi serrò le braccia da dietro e mi strinse in un abbraccio convulso e singhiozzante. Stemmo in quella posizione per tanto tempo, ci trovammo sospesi a mezz’aria,io e lei. Il suo respiro delicato mi sfiorava le orecchie, poi tutto a un tratto divenne più prepotente e si trasformò in una frase “Non te ne andare, ti prego, non senza di me, non oggi”
Mi girai di scatto, incredulo. “Guarda che io non me ne vado da nessuna parte ora, non senza di te, lo prometto”.Le diedi un bacio sulla fronte, nel punto in cui si incontra con il naso, e sulla bocca. “Ora sono le tue rughe e il tuo sorriso”. Prima di andarmene le dissi ancora una cosa. “Io non me ne vado Juliette, non è l'amore che va via...”
Corsi via senza fermarmi fino agli spalti. Appena in tempo, le luci dei riflettori si accesero tutte rivolte verso mia madre. Fu l’ultima volta che vidi Juliette e la prima che infransi una promessa.
...ma il tempo, quello sì, che è andato via.
Giulia Manno
Io sottoscritta Giulia Manno dichiaro che il racconto che ha come titolo Cash è frutto del mio ingegno”.
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