_________ALASSIO RESURRECTION_________

giovedì 27 ottobre 2011

Concorso "4 Pagine in Vacanza" terzo classificato

IL GUSTO AMARO DEL MATTINO

Il gatto ingellato e incravattato è appena uscito, felpatissimo. Dietro di sé una scia odorosa di bagnolatte sciacquato con la foia della doccia dell’ultimo minuto. Perché, micia lo sa bene, il suo Romeo ha voluto ritardare il più a lungo possibile il momento dell’addio, tanto è stata intensa la loro notte di amanti acciambellati sul suo letto duro di marciapiede.
Appena risuona il silenzio nell’intimità ricomposta della casa, la gattina si alza scattante, eccitatissima all’idea della violazione dei suoi spazi privilegiati. Non ha voluto interferire, lo ha lasciato muoversi liberamente per non spezzare la magia del sentirlo anima rigenerante del suo castello infestato dai rimpianti. Scatta verso la poltrona, attratta dalla ciotola, come dopo un lungo digiuno. La camicia di lui sembra languire pigra, con un polsino sbottonato, pencolante quasi a toccare il pavimento. La contempla lungo ogni singola cucitura, come una reliquia, e sorride instupidita, pregustando l’abuso del bambino l’attimo prima di affondare le mani nella marmellata. La accarezza senza toccarla mentre un brivido sottile lungo il collo le fa rizzare il pelo. L’afferra con entrambe le mani e se la preme forte contro il naso e la bocca, nella speranza di poterla sentire farsi corpo dentro di sé. Se la stringe al petto e torna a riaddormentarsi, esausta. Quando si risveglia, questa volta con maggior fatica, si ritrova sola.
Non si è mai sentita così sola come in quel momento.
Il cimelio è ancora tra le sue mani, può odorarlo tanto da farsi uscire il sangue dal naso. Può scolarsi all’infinito, fino ad ubriacarsi, l’immagine di lui sopra di lei, le sue mani tra i capelli, il suo piacere dentro, dentro fin nelle viscere. Poi con uno scatto ansioso si gira verso l’orologio e senza guardarlo sente il silenzio frastornante del telefono, muto, accanto al letto.
Tre ore che se ne è andato e non si è ancora degnato di una telefonata.
Tira fuori una gruccia dall’armadio. La veste con la camicia, indugiando su ogni bottone, cercando di rimanere aggrappata al flusso dei ricordi. Ogni asola violata dal dito è una stilettata alla pancia, un fermo immagine incollato come carta da parati alle curve occipitali. Ripone l’ostia consacrata mentre sente il corpo smembrarsi di colpo e la lingua ricoprirsi di pelle di pesca . Si sente donna nuda di se stessa, della sua carne collassatosi nel reticolo delle fibre. Lampi di estasi la strattonano da una parte all’altra del suo guscio incrinato mentre tenta di dar inizio a quella indecifrabile giornata, così stretta al cuore e alle labbra; così lontana dalle strade battute dall’usura del tempo.
Vuole ingannarla la verità, gettarla nella pattumiera, come un fiore appassito. Non vuol vedere quel bullone che non s’incastra e che potrebbe far crollare l’impalcatura di schianto. Vuol camminare voluttuosamente lungo l’orlo del vuoto, ballerina sospesa sulla scogliera, convinta di potersi arrampicare fino al cielo con la sola forza della disperazione.
Certo che quel figlio di un telefono potrebbe squillare.
Sono le undici e Anna vuole già riempire lo spazio tra di loro con un rigurgito di parole; o anche solo con quel suo mugugno di bambina capricciosa che le riesce così bene. Vorrebbe scrivergli un messaggio e consegnarlo al vento, sicura che questo seguirebbe le sue precise coordinate di cecchino innamorato. Ma Anna non osa. Lui è in ufficio affaccendato nei suoi ritmi, incollato al telefono.
Ma non per lei. Non ha tempo ora. Non può permettersi il lusso di chiamarla.
Forse non lo avrà nemmeno in pausa pranzo se qualche cliente lo costringerà ad una forchettata di lavoro. Un pensiero che la sfiora appena, come un’ ombra nera. Ma poi si ravvede e torna alla loro meravigliosa notte. La prima che lui le regala da quando si conoscono. Prova tangibile del suo amore, non c’è dubbio. E non c’è dubbio che anche lui è impaziente di rubarsi ai suoi affari per tornare da lei; anche solo con un ciao-tesoro-tutto-bene.
Ci vuol così poco per appagare i bisogni di un cane randagio.
Anna non s’azzarda ad uscire di casa, non può rischiare di mancare l’appuntamento con la telefonata. Si aggira per le stanze con finta premura, rassettando e spolverando. Ma lo straccio della polvere si perde dietro un termosifone e la biancheria sporca riposa abbandonata sulla poltrona del salotto. Nella cucina apre gli sportelli e tira fuori pentole e tegami. Sente ancora in bocca il gusto degli scampi di ieri. Il pesce più buono mai mangiato in sua vita. Grazie a lui Anna ha sconfitto la sua cronica inappetenza, ha riscoperto il piacere della sazietà. Si ripromette di rimpolpare quelle quattro ossa scarnificate nelle prossime settimane. Ed ora decide di riscoprirsi massaia puntuale.
Perché forse già da domani lui potrebbe fare una telefonata al volo e tornare di corsa da lei, scoparla per due ore e poi chiederle un piatto veloce prima di tornare alle sue incombenze.
Monda le patate, le taglia a dadini; lava le cipolle e le sminuzza sul tagliere commuovendosi. Fracassa le uova nella ciotola, elimina i pezzi di guscio e poi amalgama i sapori e gli odori aggiustandoli di sale e pepe. Un’ultima spolverata di pangrattato, come le ha insegnato mamma, e inforna un polpettone un po’ stecchito ma lodevole negli intenti.
Mezz’ora dopo, mentre si ustiona il palato con il suo parto culinario cerca refrigerio nelle immagini della televisione. Le notizie del TG la distraggono per qualche minuto dalla trance. Ma poi, il ricordo della carne goduta le dà un nuovo scossone. Le pupille si fissano come occhi di cieco su un punto buio, lasciandosi ammaliare dalla piena degli altri sensi.
All’una e un quarto però, il film già visto così tante volte in una sola mattina, inizia a incrinarsi sotto il gelo del disincanto, sempre più tangibile e minaccioso. Perché il telefono è muto ormai da ore e l’immagine palpitante dei loro corpi in cinemascope inizia a ingiallirsi nella loro trita cornice d’amanti.
Non ricorda quando ha iniziato ad amarlo. E perché. Quando si sono incontrati sul molo battuto dalla burrasca lei si fumava la sua sigaretta di donna temprata dalla sofferenza, che non chiedeva e non voleva più dare rispetto a nessuno. Gli uomini l’avevano delusa troppe volte per poterci ricascare, per volersi gettare a lisca nell’ennesima storia. Sbagliata. Storia impossibile. Di quelle che si mangiano a colazione col cappuccino. Una chiacchiera da bar tra uomini tronfi del loro successo inguinale. Un cicaleccio tra amiche bastonate dallo stesso bastone che si consolano a vicenda. Al loro terzo incontro gli occhi da bacherozzo innamorato sembrava averli lui. La cercava continuamente – allora sì che squillavano i telefoni!- le faceva regalini di ragazzotto stupido d’amore. E quando lo aveva detto a Rosy, Anna ostentava totale disaffezione a quell’ennesimo incipit da irresponsabili, al loro sesso gratuito consumato su una macchina sudata, a quell’uomo sottratto il tempo di un orgasmo, al suo dovere coniugale. Rosy glielo aveva detto di lasciar perdere. “Tra i due sarai solo tu a rimetterci”. Una frase che ora bussa dannatamente alla sua tempia, ma che, allora, era stata schiacciata come una mosca insolente. Dopotutto anche Rosy aveva avuto la sua storia extraconiugale da ammucchiare sotto il tappeto. E ora che s’è sposata cavalca la sua legge universale-necessaria in modo così radicato che nemmeno Kant avrebbe saputo far meglio.
Facile parlare quando si viene imboccati ogni giorno da un telefono amico.
Anna il pane quotidiano se lo deve sudare goccia a goccia, nella speranza di racimolare il suo mucchietto di briciole e camparci dignitosamente. E quella camicia appesa nell’armadio è la garanzia di aver aggiunto un tassello di continuità alla sua sopravvivenza. Perché lui chiamerà di lì a poco. E se non dovesse riuscire a chiamare dall’ufficio, questa sera si ricorderà sicuramente di spedirle un messaggio di buonanotte dal cellulare. Ma se, a fine giornata, per qualche sciagurata complicazione, non dovesse farsi vivo, lei ha l’arma in pugno. Ha il suo bottino di guerra da esibire. Da lavare e stirare. Pronta per la consegna. La prova tangibile che esiste anche lei e che potrà far valere le sue ragioni nel nome di quel pezzo bianco.
Quel fottuto brandello d’anima a cui aggrappare le ipocrisie del suo vaneggiare.
Alle tre Anna esce di casa per le sue lezioni di piano. Il Conservatorio è nella zona bene di Genova, tra i filari degli oleandri e gli scorci di mare che s’infilano in mezzo ai palazzi signorili. Oggi ci va a piedi. L’autobus stipato di puzza d’uomo la inquieta e poi ha un urgenza indiavolata di sincronizzare il passo al ritmo del suo respiro ansioso. Nella tasca dei jeans c’è un cellulare in modalità silenziosa. Lo terrà lì, incollato alla coscia tutto il pomeriggio.
Se dovesse vibrare sarebbe un segnale inequivocabile d’amore e lei lo coglierebbe in un baleno.
Durante le lezioni fissa lo sguardo sulle dita degli allievi arrovellarsi sulla tastiera. Li odia quei marmocchi insolenti pieni di ambizioni.
Non sanno, poveri illusi, che si schianteranno al suolo al primo bacio di Giuda.
Alle quattro del pomeriggio la frustrazione raggiunge il livello soglia. La sua coscienza presenta, infida, il conto del passato. Le chiede che ci sta a fare dietro ad una cattedra ad impostare metronomi invece di calcare i seggiolini dei teatri in abito lungo. Era stata un talento precoce, i suoi maestri l’avevano indirizzata alla carriera concertistica, i suoi genitori già si erano visti ricoperti d’onori nei salotti bene dei loro amici. Ma lei soffriva le platee, le facevano sudare le ascelle e i palmi delle mani. Ricorda il concerto al Carlo Felice, quello dei diplomati più meritevoli a termine del percorso accademico. Ricorda che alla fine del concerto gli aloni sotto le ascelle si erano allargati come due enormi chiazze d’olio in mare aperto. Una vergogna, anche se nessuno se ne era accorto. Ed era fuggita tra gli applausi scusandosi come se non potesse più trattenere la pipì.
Ora, a quindici anni di distanza, si sente una vinta; il pianoforte a coda giace come un cetaceo spiaggiato nel salone della casa di campagna. Che fine ha fatto il blasonato genio pianistico? Castrato dalle forbici della sua esacerbata bulimia.
Fa fatica a rimanere seduta, c’è puzza di chiuso e la fronte inizia a pesarle sugli occhi. Sta per perdere il controllo di se stessa. Succede raramente ma quando arriva la piena non la può trattenere. S’alza di scatto, facendo interrompere il viavai di scale della ragazzina al piano. Che sembra guardarla con sufficienza mentre esce dalla sala borbottando una scusa. Fuori c’è un po’ d’aria ad attenderla e una boccata di sigaretta che le penetra dentro come un dolore secco.
Il limite, alle sei e dieci, è stato superato. Lo sa che non può decidere lei quando farsi viva, che non può violare la privacy dell’uomo infedele con la ventiquattrore gonfia d’appuntamenti. Ma a questo punto se ne fotte. Il cellulare è un ferro bollente, la mano suda come a quel concerto.
Ci vorrebbe borotalco, per tamponare tutto, per tappare le narici; affogare di morte dolce e sprofondare nell’amnesia totale.
Un fruscio dietro ad un cespuglio interrompe il flusso dei suoi pensieri; osserva un gatto impigrito che le sfila davanti ostentando una calma irritante. Vorrebbe tirargli il collo a quella bestia dagli occhi di ghiaccio. Poi un sussulto. In mano una vibrazione improvvisa. Sul display un soprannome pronunciato tra i gemiti dell’amplesso, la notte scorsa. E’ il destino a chiamarli all’appuntamento, in quel luogo preciso, secondo coordinate universali ben calibrate. Non c’è dubbio che siano fatti l’uno per l’altra. Quante volte glielo ha ripetuto, scherzando a denti stretti. E ora lui non potrà negare l’evidenza di quel tempismo mistico.
Anna risponde cercando nelle corde vocali un “ciao tesoro” che non tradisca le palpitazioni da attesa spasmodica; che annulli lo spazio del tempo e li ricongiunga con naturalezza in quel discorso sospeso poche ore prima.
Ma le gambe le si fanno gelatina quando dall’altro capo, un’inequivocabile voce femminile ferma l’aria e la sprofonda in uno sgomento senza parole.

Barbara Rossi

Io sottoscritta Rossi Barbara dichiaro che il racconto che ha come titolo “Il gusto amaro del mattino” è frutto del mio ingegno.

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